Emanuele Spano

Per comprendere in toto il senso di questa raccolta, che si snoda come un poema compatto orchestrato in tre movimenti, sarebbe sufficiente andare alla chiusa della lirica eponima (I miei occhi / accecati di luce / vagano alla ricerca delle mie origini), in cui la Giovannelli racchiude in un chiasmo gli elementi cardine della sua poetica: la tensione costante tra una luce perlopiù ab­ bacinante, e le tenebre; lo scavo dentro sé per ricomporre i brandelli di una realtà frantumata, scomposta e l’indagine affannosa sulle cose, che procede dalle impressioni per giungere alla messa a fuoco generale . E lo stesso titolo, pur nella sua immediatezza espressiva, intreccia le diverse anime di questo libro in un sincretismo visivo: il rosso, allora, è il sangue delle vittime inconsa­ pevoli, votate al sacrificio o all’esilio, è il tono languido d’un tramonto che disseppellisce i fantasmi del passato, è il colore ardente della passione che consuma, che sfibra. Mentre il sole svela tassello dopo tassello gli elementi del paesaggio, li investe di colore, restituendo loro la vita, affonda nella penombra i contorni affidando alla figurazione poche pennellate che, come macchie im­ pazzite, si impongono allo “sguardo” del lettore.
Non è un caso che le terre tramortite dalla guerra che dominano la prima sezione siano “di luna”, costrette in una notte senza tempo su cui incombe il silenzio della storia. Ed è in questa corona di liriche, svolta come un rosario di fotogrammi immobili, che le immagini ingombrano prepotentemente la scena in tutta la loro icasticità. Questi versi ci raccontano la tragedia di quell’est, travolto dalla furia devastante e insensata dell’uomo, ricuce lacerti della storia collettiva a tracce di un passato privato: il padre che era nato a Pola, in una terra che avrebbe patito lo scontro fratricida, privando i propri figli della possibilità di un ritorno o la zia polacca che aveva assistito al dramma dell’occupazione. E le loro vicende, evocate in trasparenza si ricongiungono in uno straziante memoriale a quelle dei tanti anonimi trasformati in pedine inconsapevoli costrette ad un gioco di morte.
La sintassi nominale esasperata, l ‘insistenza sugli ossimori, l ‘uso intenso delle sinestesie ricostruiscono i contorni di una realtà in cui la natura, nella sua desolante fissità, si tramuta in simbolo di una condizione, tanto che le presenze umane sono ridotte ad alberi, a pietre («erba tra erba /albero tra alberi»), a oggetti inerti sullo sfondo ( < un bambino corre / tra le spighe appena tagliate>). Questo orizzonte, sospeso fra vegetale e inorganico, tra umano e disumano, è schiacciato tra una terra, gonfia del piombo e del sangue dei vinti, verso la quale tentare un insperato ritorno, e un cielo a cui ogni pino (), ogni bosco, ogni girasole anela in una muta preghiera.

Eppure quella tensione verso l ‘alto, che si agita in queste pagine, non si risolve neppure nella seconda sezione del libro, anzi si tramuta in dialettica, in scontro con quell’abisso che pare inghiottire ad ogni verso l’io, sprofondarlo nel vuoto. L ‘abbandono della dimensione corale e il ripiegamento sulla sfera privata sono allora frutto di un ‘interiorizzazione del dato esterno come se, esaurita l ‘interrogazione delle cose del mondo, si rimanesse soli a scavare nei recessi della propria coscienza. Il sogno irrealizzabile delle «alte vette», l’aspirazione a ricongiungersi con un cielo in cui risorgere si infrange tra le onde turbinose d ‘un mare in tempesta, dilegua nei mulinelli e nei marosi che lasciano affiorare pochi fotogrammi smangiati dalla polvere.
È l ‘universo degli affetti a riproporsi con il suo carico di rabbia, di risentimento; a coagularsi sulla pagina trasformando la poesia in una lente che ingrandisce e dilata le pulsioni, in un monologo ininterrotto dell’anima che straripa al di là delle parole. In questo senso l ‘ultima sezione rappresenta il momento più autentico della raccolta: quello in cui la scrittura diviene confessione, si aliena dalla sua funzione puramente servite per calarsi impudentemente nel gorgo torbido dell’inconscio. Il ritmo paratattico si distende, le immagini si fanno veementi, la lingua si scioglie in un canto strozzato.
In questi ultimi testi la Giovannelli ci racconta la storia di una comunione infranta che la memoria non ha saputo contenere, offrendoci i lacerti di un passato doloroso: le speranze della giovinezza dileguate, il senso di vuoto che cresce dentro, il piacere sconfinato nel dolore che tramuta l’amplesso in stupro, il sentimento in amarezza. Se apparentemente ci troviamo dinnanzi ad una sofferenza individuale, scaturita da un malessere che sgorga dall’interno e sfocia in un torrente di parole, siamo in realtà davanti a una lucida riflessione sul male, a un dialogo con quella componente oscura dell’uomo che lo trasforma in carnefice, in assassino. E allora dall’io dell’autrice («quella parte di me») si ritorna ad una dimensione corale, che travalica le vicende personali e si collega, in una circolarità perfetta, agli orrori adombrati nelle « Terre di luna». Uno stupro, simbolico e reale al tempo stesso, che ha sottoposto ad una violenza insensata popoli interi, martoriando una terra che ormai non conosce più redenzione.
Un lettore avvertito certo individuerà in questo libro un percorso che discende a ritroso dall’esterno verso l’interno, procedendo da una triste topografia del terrore fino alle smagliature del proprio essere; qualcun altro potrà considerare questi tre momenti originariamente sovrapposti e sparpagliati dalla penna che riallinea le tracce disponendole in contenitori paralleli. Credo però che a muovere il tratto deciso di questa poetessa sia la

volontà di affermare, di dire, rintracciando la verità dentro le cose, adoperando i versi come uno scalpello capace di scavare fino a raggiungere il midollo. E non importa che si abbiano davanti i binari di Auschwitz affondati nel cemento o le sedie vuote di Cracovia, che ci si trovi dinnanzi agli spettri del passato o alle fotografie ingiallite di una domenica al mare che si credeva dimenticata, perché su tutto regna la precisione chirurgica della parola che traduce l ‘impressione in scrittura e congela i momenti in un eterno presente.

Emanuele Spano

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