Mauro Ferrari

Libro complesso, articolato e dalla costruzione ben meditata, quello di Maria Gabriella Giovannelli: la prima sezione dà il La all’intera raccolta e già delinea la possibilità di un discorso, abbozzando il tema principale: sembra quasi, questo Sole rosso, aprirsi nel segno di un sole che splende sulle sventure umane. Le figure umane, infatti, appaiono convocate quasi in absentia, come tracce di vita (di una vita che fu) sullo sfondo di una natura silenziosa, notturna, a volte spietata a volte partecipe; una natura che è terra (lemma onnipresente e variamente modulato), rocce, alberi, nuvole – e che campeggia come assoluta protagonista della sezione, da subito instaurando come due spazi semiotici una antinomia tra alto e basso, terragno e celeste, materiale e spirituale che verrà sviluppata man mano. Ecco quindi le urla silenti di Auschwitz (15), le “sedie vuote” di Cracovia (16), la visione parziale delle “spalle curve” e del bambino che “corre lontano” (17) e la stessa immagine completa ma in qualche modo offuscata, colta da lontano, che “cammina lentamente / sulle spalle un grido di dolore” (24), o che sempre “da lontano” guarda la casa.
Tutto è come se una tragedia si fosse consumata (il dolore che fu, 21) e fossimo in un Dopo in cui raccogliere i frammenti per andare alla ricerca delle origini (22) e “ricostruire” (39) con l’arduo compito di “ritrovare [se] stessa” (40) – un cammino che gli alberi della primissima lirica individuano puntando verso un alto (un cielo, 13) con movimento più volte ripreso e modulato (ad esempio si veda a p. 41 e il testo intero di p. 42).

La seconda sezione, che apre a una prima persona più che spettatrice, porta il focus su una forte soggettività che si poggia a figure esterne ma che è consapevole del “vuoto della [mia] esistenza)” (36), pienamente riflesso nell’onnipresente immensità del paesaggio (37). Emerge allora nel lettore la necessità di far luce sul movimento dei temi, che trapassano naturaliter dall’universale (“corale”, dice Emanuele Spano nella bellissima Prefazione) al personale/confessionale che ne è exemplum; specularmente, possiamo anche dire che il tema personale viene inscritto all’interno di una tragedia più ampia, che ha a che fare con la forza del male e direi piuttosto dell’errore – un errore dal piano universale, ontologico diremmo, trapassa a quello storico ed infine al personale.

Certo, non c’è facile soluzione in questa raccolta problematica e buia, né ci pare una piena risoluzione della tensione verso l’alto: il climax (47) non dà accesso a una risoluzione della tragedia, insomma a una catarsi: permane la ferita della persona poetica, stante la confessionalità scoperta dei testi Pelle chiara (48) e Hai goduto (50), ma in limine si prospetta una risoluzione almeno parziale, tramite un nuovo amore che ridà vita e in qualche modo rappresenta una parziale, provvisoria soluzione almeno personale. In sede di riflessione critica, va quindi sottolineata una dicotomia che permane, fra l’universalità della prima sezione e il restringersi progressivo dell’obiettivo sul vissuto personale, sulla vicenda autobiografica almeno per quanto riguarda la persona che dice Io nel testo.