Maria Luisa Vigorelli
Presentazione di Maria Luisa Vigorelli della raccolta “Voci” di Maria Gabriella Giovannelli presso il Circolo della Stampa di Milano il 23 ottobre 1990
Quando sento pronunciare la parola intellettuali, scrittori, mi viene voglia di rispondere: non stanno più qui, oppure sono scomparsi da tempo… Durante un mio viaggio a Parigi, una scrittrice, Marie Domenach, disse una cosa oltremodo vera, disse che il mondo moderno, il nostro mondo tecnologico è un universo in cui gli intellettuali, gli scrittori avvertono che per loro non c’è più posto. Perché, come punto di riferimento, la categoria, se così si può chiamare, era stata cancellata dalla superproduzione di individui di questa specie. Tanto che sul mercato si è prodotto un fenomeno di offerta molto superiore alla domanda. Ora io sono arrivata alla conclusione di credere che la Domenach, certamente, intendeva escludere da questo catastrofismo: i profeti, i santi, e soprattutto i poeti, testimoni questi dell’invisibile e critici viventi di ogni società.
Ho letto diverse volte il libro di poesie – Voci – di Gabriella Giovannelli e come mia abitudine ho preso le distanze dal rapporto che lega il poeta al critico, mi sono inventata investigatrice, azione questa che rende agevole lo stacco.
Ma con Gabriella non è accaduto, con piacere, voglio aggiungere, la sua capacità di seduzione è stata grande.
Mi sono poi affrettata a catalogare il perimetro delle immagini e ne ho seguito le tracce. Ricordo Volterra – il suo grigio mare; Natale in Friuli; “Quando volevo stendermi la mano” – Arcumeggia; La scogliera di Pontetto, con il vento tra i capelli.
Una meditazione sul tempo, sulla mutabilità delle situazioni, tra luoghi distanti fra loro, dove sfugge ogni senso compiuto. Pochi i personaggi, ombre sottili, fantasmi discreti, che vivono solo il tempo dell’evocazione.
Nelle sue composizioni, vi è aria, acqua, acqua di mare, il tempo, il ritmo, in fondo l’immagine allo specchio (e mi ascolto).Le nebbie, le onde del mare acquisiscono una dimensione umana che il poeta non esorcizza, perché sa che con le parole si può dipingere, sentire il profumo. Poesia, preziosa filigrana che si perde tra i colori nei suoi paesaggi, il suo mare, la figura della madre quando emerge dai ricordi.
Con Gabriella Giovannelli il sogno fluisce, ora dal pensiero attento, ora da una smemoratezza, che è un po’ come il tremolare della luce delle stelle, in fondo, la metamorfosi delle situazioni umane, cioè un sentimento profondo del perire.
Queste composizioni mi ricordano: “Il fiore di Coleridge”: “ ….se un uomo attraversasse il paradiso, in sogno, e gli dessero un fiore, come prova di esserci stato, e se destandosi, si trovasse in mano quel fiore …” Voglio dire che la questione non è certo di provare se il fiore ci sia. Il fiore, probabilmente, non c’è ma occorre fare come se ci fosse. E’ il mito. E il fiore come metafora del mito.
Forse non c’è paradiso nelle poesie di Gabriella Giovannelli, ma occorre fare come se ci fosse. In fondo è anche l’insegnamento di Agostino. E’ l’intuizione del poeta, il sogno luminoso. Ed è anche una cultura religiosa in quanto riguarda l’uomo.
Le parole di Gabriella Giovannelli, la collocazione attenta fanno presupporre il gioco, le ripetizioni, ma non c’è l’usus che la filologia alessandrina dava a questo termine cioè di divertimento. Ma uno stile invece, che ha nella parola, la propria arte, la sua avventura. In questo tempo delle comunicazioni di massa, delle tecnologie raffinate, lo spazio dell’opera d’arte, della poesia, diventa appena un soffio, nel mare dei suoni.
I romantici sapevano bene che mentre si fa poesia tra la parola e la cosa lo scarto è incolmabile e che nella malinconia nessuno può dire se il cosiddetto inesprimibile non sia soltanto il confuso e la poesia ribellione ed esilio. Molte volte il poeta, donna specialmente, avverte un isolamento e non ha uno specchio dove coltivare l’indispensabile narcisismo. Diventa, con Mallarmé, una pagina bianca.
“Ti ho cercato” dice una sua poesia –“questa sera ho sussurrato il tuo nome, ho guardato lontano”. Mi ha lasciato supporre una sessualità nascosta, non colta d’amblé.
“Sorridevi/ capivi, sorridevi./ Luminosi i tuoi occhi/ per una gaia rondine/poi/ l’assoluto/ il totale/il crudele silenzio”. Forse non c’è casa nella poetica di Gabriella Giovannelli, non c’è segreto nel salotto della madre.
Ricordo i versi di Borges: “Chi si allontana dalla propria casa/vi è già tornato. /La nostra vita / è sentiero futuro già percorso.” Vuol dire con ciò che si sta volentieri alla finestra incantandosi di incontrare i vicini perduti di vista.
Può accadere che un poeta rifiuti la compagnia, può accadere che voglia custodire uno spazio a sua immagine. Uno spazio chiuso a tutti in cui restare solo, barricandosi nel tentativo di arginare una violenza imprevedibile, esorcizzare la paura infinita.
La lingua è un piccolo mondo in segni e in suoni e il poeta la domina, e così vorrebbe fare col grande mondo e potersi liberamente esprimere ed è in questa gioia di palesare ciò che è fuori dal mondo è il vero impulso originario del nostro essere ed è lì che risiede l’origine della poesia. Bisogna comprendere ciò che è fuori dal mondo che a mio parere significa ciò che scarta rispetto al mondo, ciò che tentiamo di mutare. Dice Novalis che le pulsioni sono i n ostri miti. Le pulsioni appunto non consentono il sonno della ragione, ma fanno vivere il canto della primavera.
Il cielo si concede ai bambini. Chi abita nel cielo? Se c’è un sogno si fa poesia e si può con gesto audace camminare nel cielo. Ed è il mio augurio per questo poeta.
Documento preparatorio alla presentazione presso il Circolo della Stampa di Milano